SENTINELLA, A CHE PUNTO E’ LA NOTTE?

Shomer ma mi ilailah: Canzone di Francesco Guccini incidentalmente ispirata allo Bibbia, ad un passaggio del libro di Isaia (Cap. 21). Inno alla passione civico e alla voglia insaziabile di apprendere il senso profondo della realtà, come continua ricerca. La canzone prende il titolo dalla frase cruciale del testo biblico, appunto Shomer ma mi llailah, mantenuto in lingua ebraica, il cui suggestivo significato è: “Sentinella, dimmi, quanto resta ancora della notte?”. L’ambientazione è in un luogo non ben definito, probabilmente un deserto. La sentinella, messa o guardia di non si sa che cosa, viene raggiunta dal la domanda di un uomo (forse un viandante o un pellegrino):”Quanto resta della notte? “- alla quale risponde in modo misterioso ed interlocutorio:”Lo notte sta per finire, ma l’alba non è ancora spuntata; tornate di nuovo perciò a domandare; non vi stancate, insistete!”. E’ l’universale metafora dello condizione umana, con tante domande che non trovano risposta. L’importante è però non stancarsi mai di interrogare, per tentare di scoprire infine un senso o, perlomeno, di approssimarvisi. Le prime due strofe, in particolare, servono a spiegare chi sia questa sentinella: l’eterno guardiano di non si sa che cosa che, nella notte, continua a scrutare, innocente o peccatore, non importa, la luna. Quest’uomo, che si percepisce come “l’infinita eco di Dio” resta li immobile a reggere lo scorrere del tempo, in attesa che qualcuno venga a porgergli la domanda che rompe il silenzio e risuona come un lampo secco e un notturno grido. Nella terza ed ultima strofa si esplicita il significato di questa canzone: la domanda infatti è giunta e la sentinella può dare la sua risposta e il suo invito:”La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato, sembra che il tempo, nel suo fluire, resti inchiodato. Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete, ridomandate. Tornate ancora, se lo volete, non vi stancate!”. Il nostro testo conclude con un’immagine che evidenzia tutta la precarietà della condizione umana (“Cadranno i secoli, gli dei, le dee; cadranno torri, cadranno regni, e resteranno di uomini e idee, polvere e segni”), che però si apre alla speranza, nella riproposzione inesausta della domanda: Shomer ma mi llailah…

 

Noi siamo come naufraghi su una zattera. Passerà una nave a salvarci oppure il mare c ‘inghiottirà? Qualcuno si mostra sicuro della salvezza e non fa nulla. Qualcuno pensa che tanto vale buttarsi subito ai pesci, per non soffrire più… Altri invece, magari anche litigando, cercano di razionare al meglio il poco d’acqua e di cibo rimasti, preoccupandosi, con ogni tipo di segnalazione possibile, di rendersi visibili. Chi, fra loro, ha ragione? Chi mantiene aperte le possibilità di futuro, evitando tanto l’illusione quanto la disperazione. Sì, questi ha comunque ragione ora, anche se, alla fine, dovesse prevalere l’ipotesi peggiore. Forse una nave non passero, ma se passasse deve poterci avvistare e deve trovarci in vita. Se non mi organizzo, se non vigilo, se non Scruto, certamente non potrò arrivare né a trovare né a ricevere. Solo se l’aspetto la nave mi scorgerà. Anzi, essa passerà solo per chi sa scrutare lontano (E. Peyretti)

 

Insegnaci, Signore, a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (salmo 90,12)        

 

Impegnarsi ad osservare e ad interpretare in modo vigile ed accorto, per quanto inevitabilmente sempre parziale, il proprio tempo con le sue caratteristiche peculiari e gli indirizzi di fondo, rientra tra i doveri imprescindibili di ogni persona responsabile, per evitare di andare alla cieca e per non cadere in balia delle suggestioni e dei condizionamenti. Mi trovavo, qualche tempo fa, in coda ad un semaforo, l’auto che mi precedeva aveva appiccicato, sul retro, l’adesivo di una vignetta: uno Snoopy irritato che si gira ad apostrofare gli immancabili uccelletti accodati:”Non seguitemi, mi sono perso anch’io!”. Ho guardato, ho sorriso e mi sono ritrovato a dire:”Ma questo è lo specchio dell’uomo d’oggi…! “. Già, uno che, per tanta parte, è sperduto e ir-responsabile… Da qualche decennio, l’Occidente si trova a vivere un passaggio epocale delicatissimo e complesso, definito dagli analisti sociali: “Postmodernità”. Qualcosa che è subentrato, ma che, per tanti versi, è venuto a contrapporsi alla cosiddetta “Modernità”; il clima culturale cioè che, per lunghissimo tempo, ha caratterizzato il cammino della società, grosso modo, dal Rinascimento sin quasi ai giorni nostri. Pur coi doverosi distinguo e nell’eterogenea complessità, la “Modernità” si e contraddistinta comunque per il fatto di avvalersi di un pensiero forte, certo, programmatico, fiduciosamente ottimista, desideroso di scommettere sulle inesauribili potenzialità e le infinite risorse della ragione umana, in un orizzonte che lasciava presagire, per il cammino dell’umanità, un illimitato progresso, sulla scorta delle sempre più sorprendenti scoperte scientifiche e conquiste tecnologiche. Nonostante gli indubbi ed innumerevoli successi, la Modernità ha però sostanzialmente fallito il suo progetto rendendo vano il proprio sogno, per il fatto di aver disseminato, sulla sua strada, troppe macerie, rovine, vittime, ingiustizie ed atrocità. E il risveglio è stato di quelli amari, un vero e proprio disincanto, deluso e risentito; tanto che alle illusioni di prima si è sostituito un sistematico e sospettoso scetticismo: la Postmodernità, appunto. Protagonista di questo mutamento è stato, senz’altro, il soggetto umano; un uomo divenuto però, nel frattempo, ben diverso da quello forte, sicuro, ottimisticamente prometeico e velleitario di prima; che invece ora si presenta problematico, vulnerabile e pessimista. Un uomo caratterizzato da un “io minimo”, ristretto e ripiegato sulle sole certezze del dover dar risposta e del dover soddisfare ai soli bisogni primari; in un’ottica e con una strategia che si sono fatte dunque brevi o “deboli”; di mera sopravvivenza. Abbandonata l’idea di poter conseguire tutto (era solo questione di tempo!) e di poter controllare il “senso del tutto”, oggi l’umanità sembra, più modestamente, accontentarsi di carpirne, della realtà, solo i “frammenti” (i “cocci”), e quelli immediatamente fruibili per alleviare la fatica del vivere e per poter affrontare il giorno per giorno… E così non esiste la verità, ma un puro accadere o succedersi di fatti, nei confronti dei quali ciò che vale è soltanto l’interpretazione soggettiva che se ne da. L’unica evidenza, l’unica certezza, sembra dire l’uomo d’oggi, sono io e “io sono mio”, devo rispondere solo a me stesso, secondo il criterio, sensibilmente apprezzabile, di ciò che mi soddisfa e di ciò che è capace di darmi sollievo. Per questo il mio carico deve necessariamente farsi il più leggero possibile sgravandosi, via via, dei faticosi vincoli delle responsabilità (anche sociali e persino familiari); senza appartenenze forti e retaggi di tradizione che pretenderebbero d’impormi quel che devo o non devo fare. Un io individualistico e fragile (al modo descritto), ma anche totalizzante e dispotico che pretende “dosi” sempre più massicce di emozioni, sensazioni, eccitazioni, piaceri, per sedare la frustrante sensazione di vuoto che altrimenti l’attanaglia; per potersi sentire cioè, in qualche modo, vivo. Un io che unicamente nell’implosiva direzione edonistico-narcisistica-consumistica del proprio immediato piacere sembra voler o poter destinare l’inerziale, e pur formidabile, patrimonio di risorse tecnologiche ereditate dalla Modernità. Si può ancora aggiungere che al promettente orizzonte di prima, che prevedeva un futuro a lungo termine in cui proiettarsi, adesso, nella crisi, è subentrata la “navigazione a vista”; che conosce la sola esigenza del “tutto e subito” in una contrazione del tempo in un effimero quanto totalizzante presente; addirittura nell’attimo presente; in un orizzonte temporale concepito, esso stesso, come mero susseguirsi di attimi unicamente giustapposti, non necessariamente connessi e consequenziali.

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie (G. Ungaretti)

“Non è mai dato sapere che cosa sia davvero giusto scegliere, perché tutto si vive una sola volta, senza confronto con vite precedenti o possibilità di correzione in vite future. L ‘uomo affronta ogni esperienza “immediatamente” e per la prima volta; senza preparazione… Come un attore che calco la scena improvvisando, senza aver mai prima provato la parte. Ma che valore può mai avere allora la vita se la prima prova è già la vita stessa? Proprio per questo l’esistenza non può che essere paragonata ad uno schizzo. Anzi “schizzo” non e nemmeno il termine giusto; sì perché, in quel caso, ci si troverebbe, pur sempre, davanti ad un abbozzo di qualcosa d’altro o alla preparazione di un successivo quadro, ma qui invece non c’è altro che lo schizzo del nullo; un abbozzo destinato a rimanere tale, a cui non farà mai seguito alcun successivo e definitivo quadro…” (M. Kundera, L ‘insostenibile leggerezza dell’essere).

 

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